Un romanzo distopico e un saggio sull'utopia


Utopia è una parola coniata nel 1516 da Tommaso Moro a partire dal greco (propriamente vuol dire non luogo). Con essa si è indicato, durante l'età moderna fino a tutto l'Ottocento, il sogno di una società più giusta, progredita, civile - una società in cui vivere sarebbe stato più bello. Nel Novecento purtroppo alla dimensione dell'utopia è subentrata quella dell'utopia negativa (o distopia). Il sogno si è tramutato in incubo: un segno dell'angoscia sotterranea che pervade il nostro tempo.

I due interventi di Massimo Flematti che proponiamo qui rappresentano le due facce della medaglia: il primo è la recensione di un romanzo distopico, il secondo la presentazione di alcune ricerche filosofiche contemporanee, che riprongono l'attualità dell'utopia, nel segno di una speranza possibile.

 

SOMMARIO

  1. Robert Harris - Il sonno del mattino
  2. Roberto Mordacci - Ritorno a utopia
  3. informazioni sull'autore delle recensioni (Massimo Flematti)

 


 

Robert Harris, Il sonno del mattino

 

Nel tardo pomeriggio di martedì 9 aprile dell’anno 1468 di nostro Signore Risorto, un viaggiatore solitario avanzava cauto a cavallo attraverso la landa selvaggia di quell’antica regione dell’Inghilterra sudoccidentale nota fin dai tempi dei Sassoni con il nome di Wessex.”

Così inizia il romanzo Il sonno del mattino che appartiene al genere distopico, un filone della letteratura che in questi ultimi anni ha prodotto diversi fortunati racconti.

Il protagonista è un giovane prete, Christopher, che giunge in un remoto villaggio dell’Inghilterra per celebrare il funerale del parroco, morto una settimana prima. Tutto in quel luogo gli appare inquietante. La terra, desolata, è disseminata di strane cose: manufatti antichi, monete, frammenti di un tipo sconosciuto di vetro, oggetti che il vecchio parroco collezionava di nascosto in modo meticoloso, quasi cercasse delle spiegazioni sulla loro esistenza o le prove di una civiltà fatalmente scomparsa.

Nella biblioteca il giovane religioso trova libri ‘proibiti’, che parlano di un mondo lontano che non esiste più. Che sia questa la causa della morte dell’anziano sacerdote, adagiato nella bara con il viso sfigurato e il corpo pieno di ferite? Christopher indaga, turbato da inquietanti sogni forse premonitori, nel ‘sonno del mattino’, il ‘secondo sonno’, con il risultato che, nell’arco di soli sei giorni, tutto ciò in cui ha sempre creduto, dalla sua fede alla stessa storia del mondo, sarà messo alla prova fino a essere distrutto. Siamo nel 1468.

Verrebbe da pensare al tardo Medioevo e i primi capitoli del romanzo avvalorano questa collocazione. Lo spazio è occupato da foreste impenetrabili e brughiere; i cavalli sono l’unico mezzo di trasporto; l’elettricità è sconosciuta; l’illuminazione affidata alle candele e il riscaldamento ai camini; le case hanno tetti di paglia e per scrivere si usano le penne d’oca; gli attrezzi agricoli sono primitivi e i sentieri, come gran parte delle vie di comunicazione, paludosi. Non c’è dubbio: siamo ancora nel Medioevo!

In realtà non è così. Quella data, 1468, è un inganno. Il racconto, infatti, non ritorna indietro ne tempo ma si proietta nel futuro, un futuro distopico, quello di un mondo sopravvissuto alla fine della nostra era tecnologica. L’Apocalisse avviene nel 2025. Da quel momento si ripristina un nuovo calendario ma l’anno zero è indicato con il numero 666, riferimento alla Bestia che, nel Nuovo Testamento, preannuncia la rovina del mondo. Quel 1468, allora, indica che sono passati circa 800 anni dall’Apocalisse, e ciò che è sopravvissuto alla catastrofe ha le sembianze del tardo Medioevo, chiuso in una visione cupa della realtà, e su cui domina incontrastata la Chiesa, da un lato attraverso la gestione della fede, che è il legame di quei poveracci alle prese con una terribile sopravivenza, e dall’altro con l’uso spietato dell’accusa di eresia: così spegne qualsiasi ribellione, e, soprattutto, qualsiasi ricerca del passato. 

Lo scrittore ci trasporta lentamente in questo mondo distopico, mentre Christopher indaga. Affiorano allora i segni della civiltà scomparsa, che è quella in cui viviamo noi, mentre le certezze del giovane sacerdote si incrinano per trasformarsi in incubi.

Non vi dirò di più sulla trama, che lascio a voi scoprire nella lettura. Cercherò invece di mettere in luce ciò che l’Autore vuole dirci con questo romanzo.

In realtà è lui stesso a rivelarne i contenuti nascosti in una intervista rilasciata al supplemento letterario del Corriere della Sera, La lettura, il 10 novembre 2019.

La storia, dice Harris, ci insegna che civiltà che si pensava durassero per sempre sono crollate, scomparendo. A volte, come quella Maya, con una velocità sconcertante. Alcune avevano raggiunto livelli di sviluppo notevoli e infrastrutture sorprendentemente sofisticate, ad esempio quella romana. Il paradosso della nostra civiltà tecnologica avanzata, aggiunge, è che ben poco riuscirà a durare a lungo come una villa romana a due piani fatta di mattoni. Non i grattacieli, destinati a sgretolarsi nell’arco di 150 anni se privati della manutenzione per come sono costruiti. Neppure le nostre strade di asfalto sopravviveranno come quelle romane di pietra e ghiaia. Siamo in realtà debolissimi: manca un nulla per metterci a terra. Harris ricorda che “Londra, come si legge ovunque, è a solo sei pasti dalla fame.” Un’interruzione prolungata dei rifornimenti che conseguenze avrebbe?

In effetti, nel panorama desolato in cui è ambientato il libro dello scrittore inglese, compaiono resti di altre civiltà ma non della nostra, completamente cancellata.

Sopravvive invece la Chiesa, come istituzione. Perché?

Nell’intervista citata, l’Autore lo spiega. “In Inghilterra e nel Galles ci sono 37mila chiese. Costruite per lo più in pietra e risalenti a epoche lontane. È probabile che queste strutture, o le loro rovine, rimangano in piedi assai più a lungo dei moderni edifici che le circondano.” Nella mia storia, prosegue, “sono le chiese a fornire i luoghi in cui si riuniscono i sopravvissuti,  inizialmente per riparo e sicurezza, poi per cercare supporto spirituale e una spiegazione teologica alla catastrofe che li ha sopraffatti.” Mentre le società ascendono e decadono nel corso dei millenni, l’umanità resta fondamentalmente la stessa. Siamo le stesse creature con gli stessi impulsi fondamentali dei romani o dei sassoni, ad esempio. Formiamo delle comunità per sopravvivere meglio, lavoriamo, commerciamo, alleviamo bambini, creiamo arte, cerchiamo teorie, ideologie e religioni che diano un senso all’esistenza. “Niente di tutto questo cambierà, qualunque cosa accada alla nostra civiltà.”

In conclusione permettetemi un riferimento all’attualità. La funzione degli scrittori è di offrire visioni meno confortanti ma più veritiere della realtà, rispetto alla percezione che ne ha la gente. Ciò spiega il succedersi a ritmo incalzante delle distopie, quasi a voler lanciare un avviso: attenzione! Il mondo in cui viviamo è sull’orlo del precipizio. Basta un niente perché la causa di tutto ciò, l’uomo, scompaia per sempre. 

Oggi però una distopia la stiamo vivendo sulla nostra pelle, non attraverso un racconto ma nella durezza di una realtà concreta che pone l’individuo di fronte a una minaccia terribile, facendolo sentire  impotente. Forse da domani non occorreranno più distopie ma qualcosa che indirizzi l’uomo ipertecnologico, sconcertato e spogliato delle sue sicurezze, verso un mondo diverso, che lo allontani dal baratro in cui si specchia. Forse è il momento di abbandonare le distopie e tornare alle utopie. Buona lettura.

Massimo Flematti

 

[Robert Harris, Il sonno del mattino, Mondadori, Milano 2020, pp.297, euro 20,00]

 


 

Roberto Mordacci - Ritorno a utopia

 

Il libro che vi presento oggi si intitola Ritorno a utopia di Roberto Mordacci. L’Autore insegna filosofia morale e filosofia della storia all’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano ed è il Preside della Facoltà di Filosofia di quell’Ateneo.

Ritorno a utopia è una storia dell’utopia, da Thomas  More ai giorni nostri, con qualcosa di più: contiene un messaggio che trovo interessante e di cui voglio parlarvi. Infatti questo saggio è un invito, una esortazione a ripensare l’utopia come sguardo sul futuro e a progettare una società più giusta, più buona, meno violenta anche se non perfetta, perché l’utopia non è un castello in aria, una fantasticheria sganciata dalla realtà. 

Il pensiero utopico, come l’Autore insiste a dirci, è profondamente ragionevole, realistico e concreto. È la dimensione del possibile. Lo dimostra ripercorrendone la storia. 

Scrive infatti Mordacci nell’introduzione: “Occorre, di fronte alle contorsioni folli dell’attuale assetto del mondo, riscoprire la profondissima ragionevolezza del pensiero utopico, il suo realismo, la sua concretezza. E la sua validità anzitutto politica, non solo letteraria o intellettuale”(pag.IX). Ciò di cui il mondo contemporaneo ha assolutamente bisogno, aggiunge, è “proprio la capacità tipicamente moderna di pensare il futuro come una possibilità buona, ovvero come un’opportunità per il cambiamento”(x). 

Una volta individuati i limiti dello sviluppo che hanno caratterizzato questi ultimi cent’anni della nostra storia, si comprende che così non si può andare avanti, pena la fine non solo della civiltà attuale ma della stessa umanità. Diventare consapevoli di questo significa guardarsi attorno con uno sguardo consapevole e lucido per capire cosa non va: le sperequazioni economiche, le ingiustizie sociali, la violenza contro la natura e contro i più indifesi, insomma chiedersi che ne è di quei valori, come giustizia, fratellanza, pace, libertà rimasti per troppi sulla carta. È da questa consapevolezza che si riattiva l’utopia, che non è solo ‘il luogo che non c’è’ ma anche ‘il luogo felice’ “dove , dice Mordacci, è consentito essere realmente umani.”(4)

In effetti il termine utopia contiene questa ambiguità: da un lato è ‘un non luogo’ e dall’altro ‘un luogo felice’. Il termine è stato coniato da Thomas More, a cui il libro dedica pagine intense, e l’Autore ritiene che More fosse ben consapevole di questa ambiguità su cui magari gioca, costruendo il suo mondo giusto e buono. 

L’”Utopia” di More inizia con uno sguardo disincantato sulla realtà dell’Inghilterra di quel periodo: siamo all’inizi del Cinquecento quando la trasformazione capitalistica della terra, soprattutto con il passaggio dagli ‘open fields’, i campi aperti, alle ‘enclosures’, le recinzioni, espelle un numero impressionante di contadini dalle loro case, gente che fino ad allora era sopravvissuta utilizzando le tradizioni e gli usi agricoli medievali. Li spinge verso le città a cercare un lavoro e la sopravvivenza: invece queste masse vanno a ingrossare le fila dei nullatenenti, dei nullafacenti, dei diseredati, aumentando anche le sperequazioni. È da qui che More parte per individuare quelle che devono essere le caratteristiche di una società in cui tutti possano vivere bene e felici. 

Da questo emerge chiara la differenza con la “Repubblica” platonica, come Mordacci sottolinea: se è vero che in “Utopia” sono presenti espliciti riferimenti a Platone, tuttavia More non pensa ai principi teoretici, metafisici del reale per derivare la forma perfetta di una società, ma lavora al contrario: prova a immaginare come sarebbe vivere in una società giusta e buona, a raccontare che cosa vede in essa e da qui ricava eventualmente i principi, le caratteristiche che deve avere una società  perché sia strutturata in quel modo. È dalla realtà della vita comune che egli trae gli aspetti generali. “È questo l’esercizio di Utopia: osservare la realtà di una società giusta e felice e comprenderne le basi, invece che piantare queste ultime nel cielo e farne discendere un castello inabitabile” (pag.7) 

Inoltre la città ideale platonica è un espediente per parlare dell’anima, per comprendere come si debba ordinare la propria psyché affinché si agisca con giustizia. “Sembra quindi che lo spazio politico venga anzitutto pensato come riflesso del buon ordinamento dell’interiorità dei cittadini, come a dire che la moralità è l’elemento decisivo della buona politica.[…] Per More il tema è espressamente politico, più che morale, e la città ideale non è solo una finzione che mira, come invece in Platone, a dimostrare che la ragione deve comandare sulle passioni e sul corpo. In Utopia non è l’ordinamento dell’anima a garantire il buon ordine politico. Anzi, è quest’ultimo che consente ai cittadini di sviluppare le proprie virtù civiche e personali.” (44)

Casomai il lato ideale di Utopia risiede nel disegnare una città semplicemente possibile.

L’altro elemento di interesse per l’”Utopia” di More, oltre al fatto che dà avvio a questa corrente del pensiero filosofico, è la visione umanistica dell’uomo che traspare dall’opera, a cui Mordacci dedica pagine molto belle. Del resto More è uno degli uomini più in vista della cultura del tempo, in contatto con gli esponenti più in vista del Rinascimento: basti pensare alla sua amicizia con Erasmo da Rotterdam, che chiude la sua opera più importante, “Elogio della follia” proprio in Inghilterra, a casa del grande umanista. Inoltre è importante sottolineare come egli abbia profondamente assimilato il pensiero di Pico della Mirandola, a cui aveva dedicato un anche saggio: infatti nell’”Oratio de hominis dignitate” di Pico si possono individuare le caratteristiche della visione attorno all’uomo che avevano gli umanisti e capire come mai affidassero al suo agire, all’agire dell’uomo, la possibilità di costruire un mondo a sua misura. Si tratta di una questione squisitamente pratica, “nel senso proprio della capacità riflessiva di abitare umanamente il mondo, secondo l’aspirazione alla giustizia e alla felicità che è inscindibile dalla natura umana.” (57)

Ritorno a utopia ripercorre tutte le tappe della storia di questo particolare pensiero per arrivare ai giorni nostri, dove Mordacci dedica spazio, tra gli altri, a Zygmunt Bauman e alla sua “Retrotopia”. Il saggio del filosofo polacco non è propriamente un’utopia ma è utile per capire come mai questa corrente della filosofia non abbia avuto grande fortuna fino a oggi, nella nostra società contemporanea. Con il termine retrotopia, infatti, Bauman coglie lo spirito della società attuale che mitizza i passati nell’illusione che allora, un tempo, si stesse meglio. Non importa se quei passati, da un punto di vista storico, fossero completamente diversi da come vengono vissuti oggi: conta la nostalgia che si delinea per quei tempi, il modo con cui li si recupera. La nostalgia, osserva Mordacci, è alla base della retrotopia perché proietta una condizione idealizzata in un tempo remoto, ormai lontano, che non esiste più. È una spinta dilagante e autodistruttiva che è l’eredità avvelenata del post–moderno. Con quali conseguenze? Si rifiuta di voler stare nel presente e lo si odia ma, soprattutto, si rinuncia a progettare un futuro. “Al contrario l’utopia vede proprio nel presente, benché in un altro luogo, le potenzialità per un diverso modo di vivere, che richiede una trasformazione radicale ma che non appartiene a un’altra epoca, a un tempo perduto.”(110) 

Alla retrotopia di Bauman, Mordacci oppone l’anterotopia, ossia “un luogo situato davanti a noi che raccolga in una visione complessiva l’immagine di un futuro attraente e desiderato per gli esseri umani.”(139) È in questo spazio che bisogna costruire un’utopia per il domani perché essa ci dice che occorre una società buona, una società che permetta di vivere eliminando quei pericoli che stanno minacciando la sopravvivenza non solo del mondo ma della stessa umanità. Quindi è da ripensare l’ambiente, certamente, ma non solo: la pace, l’educazione per tutti, le buone istituzioni, l’equità di genere, la riduzione dei conflitti anche da un punto di vista economico sono gli aspetti che richiedono una riflessione nuova. La vita su questo pianeta deve essere buona e con l’anterotopia bisogna avere il coraggio di costruire le linee di una società per il futuro. L’utopia si sta risvegliando e incomincia a dispiegare i suoi effetti. l’Autore sottolinea ad esempio la novità e la portata di quelle che ruotano attorno allo sviluppo sostenibile, indicandone alcune come “Utopia per realisti” di Rutger Bregman, l’Agenda 2030, approvata dalle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, o “L’utopia sostenibile” di Enrico Giovannini. 

Con questo concludo la recensione del libro di Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia e vi auguro una buona lettura.   

Massimo Flematti

 

[Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia, Editori Laterza, Bari-Roma2020, pp.X, 145, euro 16,00]

[Zygmunt Bauman, Retrotopia, trad. it. di M.Cupellaro,Laterza,Bari-Roma, 2017]

[Rutger Bregman, Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale, trad. it. di G.Carlotti, Feltrinelli, Milano, 2017]

[Enrico Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza, Bari-Roma, 2018]

L’opera di Thomas More, Utopia, è presente nel catalogo di molte case editrici, anche con lingua originale (latino) a fronte. 

 


Massimo Flematti, già docente di filosofia e storia nel Licei, è iscritto alla Sezione del Verbano Cusio Ossola della Società Filosofica Italiana.

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